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IL MIO SOGNO - Sara Curcio
Conosco il tuo sogno e anche io ne ho uno e vorrei che si realizzasse. Te lo racconto. Il mio sogno è diventare dottoressa e impegnarmi perché tutti i bambini del mondo poveri possono fare tutto quello che possiamo fare noi. Ho questo sogno da quando avevo cinque anni perché volevo rendere il mondo più bello. Io quando sarò dottoressa vorrei lavorare nell'ospedale di Potenza, la città in cui vivo, nel reparto di pediatria per curare le malattie dei bambini, non farli sentire soli e renderli felici anche se si trovano in ospedale. Ogni giorno per andare da loro mi travestirei da pagliaccio e li farei sempre stare insieme con gli altri bambini. Fare la dottoressa è faticoso ma io lo voglio diventare a tutti i costi. Vorrei fare a nome dell' Italia tanti accordi con i paesi del mondo perché tutti i bambini possono andare a scuola, aver una casa e un famiglia e possono essere curati. Viaggerei e andrei in questi paesi per conoscerli di persona e andare a prendere quelli che hanno bisogno di essere aiutati in Italia: li porterei qui con tutta la loro famiglia. Spero che il mio sogno si possa realizzare.
IL SOGNATORE - Vito Antonio Nella
I compagni di giochi lo chiamavano il Sognatore, ma sua madre sapeva che non erano solo sogni. A nove anni dava l’impressione di star sempre con la testa nelle nuvole, ma sua madre aveva intuito che percepiva il fremito dei cuori e i sussulti nei cervelli degli altri. I sogni di quel ragazzo non trovavano molta corrispondenza nella realtà del suo piccolo borgo di pastori e contadini e i sentimenti delle persone contrastavano spesso con i propri. A sua madre raccontava le visioni e al padre faceva le domande. «Ho sognato un gregge al pascolo sull’altopiano e mentre il pastore era distratto, tutte le pecore se ne andavano dritte verso il burrone. Ad un tratto, proprio da sotto al crepaccio, è risalito un lupo che ha spaventato le pecore e le ha messe in fuga, allontanandole dal pericolo, senza neanche tentare di aggredirle. Non sarebbe tutto più bello se accadesse davvero?» «Certo!» Rispondeva sua madre «Ci vorrebbe qualcuno che facesse andare le cose a rovescio.» «Lo farò io!» Ribatteva convinto il ragazzino e la mamma gli sorrideva, con espressione sempre benevola e incoraggiante, come se ci credesse davvero.
I perché di una realtà così diversa dai suoi sogni li metteva di fronte al padre: «Perché tutti quelli che non sono uguali agli altri vengono scartati?» Gli dispiaceva, infatti, che i ragazzini come lui, con la sola differenza di esser ciechi o sordomuti oppure storpi, non venissero ammessi a giocare con tutti. «Perché i figli della gente più povera si tengono lontani da quelli delle famiglie più ricche?» E ancora: «Perché chi commette uno sbaglio non può più tornare indietro ed essere riaccolto tra la gente perbene?» Suo padre, di mestiere, faceva l’aggiustatore delle cose rotte: tavoli, sedie, panche, porte, finestre, tetti, pareti; molte volte anche delle ossa fratturate di animali e perfino di persone umane, specialmente ragazzini scapestrati. Ma riparare i danni provocati dalla malignità e dalla cattiveria umana non era certo alla sua portata e dunque non aveva risposte convincenti alle domande del suo ragazzo. Perciò anche lui, come tutti i padri, era costretto a rifugiarsi nella solita, eterna e sbrigativa ragione del “così va il mondo”. «E io lo cambierò!» rispondeva il ragazzino con decisione. Tutti i ragazzi vogliono cambiare il mondo, così come tutti i padri sanno che, col tempo, sarà il mondo stesso a raffreddarne gli entusiasmi. Però non era questa l’aspettativa dell’Aggiustatore; lui sapeva per certo che suo figlio avrebbe provato davvero a rivoltarlo, il mondo.
Nei suoi sogni il ragazzo vedeva i pastori e i contadini del borgo sempre pronti a farsi del bene l’uno all’altro. Le disuguaglianze rimanevano tutte, ma non avevano importanza; i ciechi non vedevano, i sordi non udivano, i paralitici non correvano e i poveri non si arricchivano; però la vista, l’udito, la mobilità e la ricchezza degli altri veniva messa a disposizione di chi ne pativa la mancanza. Si sarebbe mai potuto far qualcosa affinché andasse così anche nella vita reale? Se lo chiedeva sempre al risveglio, ma una notte il sogno cambiò di genere; da festoso divenne tragico e Fumonegliocchi precipitò dentro al burrone, dove finisce l’altopiano.
I ragazzini del borgo erano divisi non soltanto dalle disuguaglianze di tipo fisico o dalla classe sociale, ma anche dalle differenze caratteriali. Fumonegliocchi, un ragazzone grande e grosso, era il capo di un gruppetto particolarmente attivo nell’infastidire i piccoli; specialmente quelli più deboli e soprattutto coloro che, dei deboli, osavano ergersi a difensori. Uno soltanto, in verità: il Sognatore; e fu per questo che proprio lui diventò presto il bersaglio preferito di ogni buffonata e di ogni cattiveria, ordinate da Fumonegliocchi ed eseguite dai suoi servetti. Il bravo ragazzo però non se ne faceva cattivo sangue e non si mostrava né mai adirato né turbato, anzi, si prestava al gioco sporco come se fosse un divertente passatempo tra amici.
Il brutto sogno di quella notte lo fece sobbalzare quando ormai era già quasi l’alba. Aveva visto Fumonegliocchi con le sue pecore al pascolo e un agnellino che, uscito dal gregge, correva dritto verso il precipizio. Nel sogno vide il pastorello gettarsi all’inseguimento della bestiola in fuga e lo vide ancora mentre la raggiungeva proprio al limite dell’altopiano e l’afferrava per la coda. A quel punto l’impertinente agnellino, per divincolarsi, scattava in avanti e cadeva nel burrone, portandosi Fumonegliocchi appresso a se. Si svegliò di soprassalto, uscì dal letto e corse fuori di casa in direzione dell’altopiano.
Sua madre non dormiva. L’aveva sentito agitarsi nel sonno e si teneva pronta ad intervenire, ma non fece in tempo a fermarlo. Era stata colta di sorpresa; il suo ragazzo non faceva mai sogni agitati e raccontava soltanto le magnifiche meraviglie di quel mondo creato dalla sua bella immaginazione. Parlava dei sogni come se fossero parte di un progetto da realizzare a compimento del suo destino. Ma l’incubo di quella notte la spaventò molto e svegliò il suo uomo perché corresse dietro al loro figliolo e lo riportasse a casa sano e salvo. L’Aggiustatore non se lo fece ripetere; si buttò giù dal letto, allacciò i sandali in fretta e furia e corse fuori dalla casa. Gli parve di scorgere un’ombra in lontananza e si affrettò in quella direzione. Il chiarore dell’alba prevaleva sulla notte e la sagoma del ragazzo si distingueva sempre più chiaramente, ma non pareva avvicinarsi. Era diretto al limite dell’altopiano, dove la terra si spacca e cade a strapiombo nel torrente. Lo vide spingersi fino al termine del pianoro e poi sparire, come inghiottito dalla terra stessa. Il cuore dell’Aggiustatore si fermò, ma non fino al punto da frenare la sua corsa; c’era un sentiero, poco distante, che portava giù al torrente e vi si diresse. Era scosceso e ripido e non usò prudenza; cadde e rotolò fino in fondo senza neanche tentare di rialzarsi. Si rimise in piedi solo quando sentì l’acqua gelida del torrente.
Un lamento monotono e insistente sovrastava lo scoscio delle acque e guidò l’Aggiustatore fin sul punto che poteva corrispondere alla caduta del suo ragazzo. Ci arrivò col cuore in gola e di ragazzi, sull’argine del torrente ai piedi della parete scoscesa, ne trovò due. Fumonegliocchi stava disteso, lacerato e sofferente; mentre suo figlio, tutto intero e senza neanche un graffio, era chinato di fianco all’altro nell’atto di tamponargli le ferite e incoraggiarlo. Lo screanzato ragazzone era davvero ridotto male: tagli e graffi dappertutto; l’abito stracciato in più parti e, quel che era peggio, l’assoluta e tragica immobilità delle gambe. La disperazione del poveretto risuonava come una triste conferma della terribile disgrazia: «Non sento più le gambe!» ripeteva tra i singhiozzi in angosciante litania. Il Sognatore stringeva forte le sue mani e lo rincuorava fiducioso: «Stai calmo; vedrai che non è niente, tra poco passa tutto!» L’Aggiustatore se ne meravigliò non poco; suo figlio si stava spingendo oltre il dovuto nel generoso tentativo di confortare il disgraziato; secondo lui c’era poco o niente da rassicurare, ne aveva viste troppe di simili condizioni: incidenti di lavoro, cadute da cavallo, ferite di guerra o percosse e bastonate per mille altre ragioni. Una condanna a grave infermità permanente, quasi impossibile da accettare, specialmente per un ragazzo. «Dobbiamo portarlo via di qua.» disse a suo figlio «Cerco dei rami per fare una lettiga e lo riportiamo a casa.»
Dopo che l’uomo si fu allontanato, Fumonegliocchi represse il dolore, afferrò le mani del Sognatore e le strinse con la forza della disperazione; lo guardò fisso negli occhi e gli disse: «Ti ho fatto cose che avrebbero costretto chiunque a gettarsi nel burrone e non ti sei piegato nemmeno di un capello; vorrei sapere dove trovi tanto coraggio e tanta forza, ma ti prego, usali adesso per farmi morire, perché io da solo non ne sono capace.» Il Sognatore sorrise e gli poggiò una mano sulla testa. «Alzarti e cammina!» gli ordinò «E vedrai che ne sei capace. Perché a casa ci devi tornare con le tue gambe. Non vorrai mica che ti ci porti io, comodamente disteso sulla lettiga, neanche fossi il principe d’Egitto!»
La rudimentale lettiga preparata dall’Aggiustatore non servì; Fumonegliocchi, pieno di incredulità e stupore, si alzò da solo e tornò a reggersi perfettamente sulle sue gambe. Non credette mai che la paralisi fosse stata momentanea e passeggera, come aveva cercato di fargli intendere il Sognatore, ma tenne per se l’assoluta certezza di essere stato guarito da una forza soprannaturale e se la portò fino alla morte. Così come fece pure l’Aggiustatore; anche lui era sicurissimo che la colonna vertebrale dell’antipatico pastorello si fosse spezzata di netto e che suo figlio aveva avuto la capacità miracolosa di rimetterla a posto, dopo essersi buttato giù nel torrente, dal burrone a strapiombo, senza riportare neanche un graffio.
Il sole era già alto quando i tre fecero allegramente ritorno a Nazareth. Si chiamava così quel piccolo borgo di pastori e contadini nella terra di Galilea.
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- Scritto da Anita Telesca
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In data domenica 23 febbraio 2020 SI è svolta la sflilata di carnevale organizzata da Tonino Nella nella città di Potenza.
Essa può essere definita come una tradizione organizzata dai salesiani cominciata 4 anni fa all'intrerno della quale hanno contribuito numerose associazioni sportive,volontariato, istituzioni. Con l'aiuto di queste abbiamo creato un coordinamento chiamato Nessunoescluso ed ideato questa sfilata.
Questa tradizionale sfilata non ha subito radicali cambiamenti ma contemporaneamente anche il comune ne ha fatto un'altra e questo è stato lo sviluppo principale poichè l'amministrazione comunale ha affidato alla loro associazione il tema della sfilata corrente.
Lo scopo della sfilata è divertirsi,nel vero senso della parola, tuttavia il divertimento non consiste solo nel ridere e nello scherzare ma come dice Tonino andare in una direzione diversa e questo viene confermato dalla scelta del nome del coordinamento e dalla scelta dei temi precedentI come quello della CONOSCENZA, di DIRETTI AL FUTURO e quello dell' ALLEGRIA che è quello di quest'anno.
Tutti questi temi esprimono un significato importante e grazie ai momenti di svago e di spensieratezza che si creano si possono inviare dei messaggi, dice Tonino, i quali tanto più sono complessi tanto meglio si possono comprendere in un contesto di leggerezza e allegria.
All'interno della sfilata,a rappresentare il contorno al fiume dell'allegria, ci sono le ragazze del gruppo BRAMEA che fanno parte del nostro CGS e in occasione della sfilata hanno deciso di rappresentare ed imitare l'idea del pesce poichè esso è un'idea creativa e colorata allo stesso tempo. Per realizzarlo hanno avuto bisogno della collaborazione di tutto il loro gruppo e del supporto della loro animatrice princiopalmente per tagliare i cartoni e per dipingerli; questo ha contribuito a rafforzare il loro gruppo divertendosi.
CHRISTIAN CALCAGNO
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- Scritto da Antonio Ruoti
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Il carnevale è una festività legata sia alla tradizione salesiana che a quella lucana. Per quanto riguarda l'oratorio, la tipica allegria del carnevale è di casa: lo si può evincere dalla frase che Don Bosco rivolge a tutti noi “La santità consiste nello stare sempre allegri”. Questo pensiero è ancora più significativo e necessario nell’anno dedicato alla santità giovanile, sotto lo slogan “Puoi esser santo #lìdovesei”. Restando in tema di allegria, protagonista sarebbe probabilmente ''ALLEGRA'', la maschera creata nel 2017, con lo scopo di essere verosimile sia al maschile che al femminile, simpatica e positivamente irrequieta, sollecita nel coinvolgimento degli altri, stimolante al bene e al meglio, avversaria dell’indifferenza e nemica della cattiveria e del bullismo. Tutto il variegato carnevale della tradizione tipico della nostra regione, molto diverso da paese a paese, è legato dal denominatore comune dell’allegria. Ogni paese della Basilicata ha il suo carnevale antico ed unico, ma i più noti sono:
- I Cucibocca di Montescaglioso;
- I Campanacci di San Mauro Forte;
- L’mash-k-r di Tricarico;
- Il Domino di Lavello;
- Le Maschere Cornute di Aliano;
- Il Rumita di Satriano;
- L’Orso di Teana.
Tra queste, quelle che ci hanno maggiormente colpito sono state: I Campanacci di San Mauro Forte e l’mash-k-r di Tricarico.
I CAMPANACCI DI SAN MAURO FORTE
Anche quest’anno, si festeggia il carnevale con una sfilata di suonatori di campanacci che percorrono le vie del paese. I campanacci più lunghi sono detti di sesso maschile, mentre quelli più larghi di sesso femminile. La festa di antiche origini, legata al culto di Sant’Antonio Abate, ha significato scaramantico e propiziatorio di sollievo dai malanni e di abbondanza dei raccolti. La chiusura del carnevale si celebra con il funerale e il lamento funebre del fantoccio bruciato in piazza.
L'MASH-K-R DI TRICARICO
Le Maschere di Tricarico, “l’Mash-kr” in dialetto locale, personificano il “toro” e la “mucca”. Un cappello a falda larga coperto da un foulard e da un velo, entrambi bianchi, decorato con lunghi nastri multicolori che scendono lungo le caviglie, per la “mucca”. Un copricapo nero addobbato con lunghi nastri rossi per il “toro”. Alle prime luci dell’alba un suono cupo e assordante sveglia la popolazione dalla notte: sono i campanacci agitati da figuranti travestiti che annunciano l’inizio delle celebrazioni del carnevale. Le maschere governate da un “massaro” o da un “vaccaro” raggiungono la chiesa di Sant’Antonio Abate e da qui il viaggio prosegue per il centro storico e le strade del paese, in un corteo che rievoca la migrazione stagionale di mandrie di animali.
In conclusione, cari lettori, il carnevale è una ricorrenza che porta allegria ed è bello festeggiare, poichè unisce la tradizione cristiana con quella lucana. Noi ragazzi dell'oratorio Salesiano di Potenza, festeggeremo in una sfilata in maschera domenica 23 febbraio, alla quale siete tutti invitati.
''La gioia è assai contagiosa. Cercate, perciò, di essere sempre traboccanti di gioia dovunque andiate.'' (Madre Teresa di Calcutta)
Mario Parmentola e Giovanni Larocca
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- Scritto da Fabio Vaccaro
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Noi conosciamo la figura di S. Giovanni Bosco, ma non tutti sono a conoscenza delle sue azioni quotidiane. Nel suo oratorio, era solito portare i ragazzi più disagiati come i ragzzi di strada, gli scarcerati e tutti coloro che non erano apprezzati dalla società... Naturalmente non rifiutava i ragazzi e ragazze "per bene" perché era una figura di accoglienza verso tutti. Oggi parleremo di alcuni episodi particolari e caratteristici: vorremmo ricordare che Don Bosco oltre ad aver inventato il contratto lavorativo, ha firmato il primo. Inoltre migliorò anche le condizioni lavorative dei giovani introducendo le ferie e, in particolar modo, le festività cristiane divennero giornate di riposo. Il datore di lavoro doveva essere ''padre'', non ''padrone" e doveva concedere un salario minimo. Il tirocinio doveva svolgersi in vari giorni e il ragazzo doveva esser pagato in base alle ore (massimo 8 al giorno) e al rendimento. E' anche grazie a lui quindi che oggi i nostri genitori e i nostri nonni hanno giovato di maggiori diritti e maggiori tutele.
Giovanni Larocca, Giulia Lovallo, Antonio Lavanga e Mario Parmentola
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- Scritto da Antonio Ruoti
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Ieri, 31 gennaio, in occasione della Solennità di San Giovanni Bosco, ha presieduto la celebrazione l’arcivescovo Mons. Salvatore Ligorio. Lo abbiamo incontrato per una breve intervista, che qui riportiamo.
E’ la festa di don Bosco: cosa pensa della sua figura e della sua azione pastorale?
Lui è un Santo, e per essere un Santo è segno che è entrato nella volontà di Dio, quella che genera uomini nuovi. San Giovanni Bosco ha sempre creato generazioni nuove, facendo della costanza il suo punto di forza. Il vostro giornalino si chiama “La Goccia”, e c’è un’espressione latina che esprime benissimo questo concetto: “Gutta cavat lapidem”. La goccia ripetuta continuamente riesce a scavare la roccia più dura: don Bosco ha creduto sempre in questo, ed è arrivato sempre per primo con il bene ai suoi ragazzi.
Il tema di quest’anno per i Salesiani è “Puoi essere santo #lìdovesei”: come può un ragazzo oggi essere santo lì dove è?
Mi ha impressionato sempre quell’episodio in cui don Bosco, passando per il cortile, chiede a Domenico Savio: “Caro Domenico, se in questo momento dovessi morire cosa accadrebbe?”. E Domenico: “Continuerei a giocare”. Che significa questo? Quando si è in grazia di Dio, non si ha da temere nulla. Ovunque uno stia, quando mangia, quando gioca, quando studia, nella gioia e nella sofferenza, in qualsiasi luogo e con qualsiasi persona, se sta nella grazia di Dio, è santo lì dove è. Vi auguro di essere ragazzi della gioia!
Un vescovo può essere il primo modello di santità per la sua diocesi: lei come si impegna ad essere santo lì dove è?
Il vescovo ha questo grande dono, ma anche lui ha le sue fragilità. Pensate ad esempio ai primi apostoli, hanno avuto le loro fragilità. Non dobbiamo avere paura di riconoscere le nostre fragilità. Ciò che conta è rialzarsi e rimettersi in cammino con la grazia di Dio. Certo, “a chi più ha più sarà richiesto” si dice nel Vangelo: chi ha più responsabilità deve rifulgere in una luce sempre più luminosa; e quindi il vescovo, che è il padre di una comunità, un successore degli apostoli, deve essere anche lui esemplare, confidare nella misericordia di Dio, essere testimone dovunque stia di santità.
Giovanni Larocca, Antonio Lavanga, Lorenzo Mancusi
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